Sostenibilità: la sfida di definire i nuovi standard dell’industria fashion

da | LIFESTYLE

Ad oggi, non esiste ancora una vera regolamentazione per definire e garantire l’effettiva sostenibilità di un brand. I marchi possono usare termini come sostenibili, trasparenti ed ecologici per descrivere le loro collezioni senza una propria regolamentazione o verifica da parte di un ente certificato.

Aziende come Wearwell e Good On You hanno come obiettivo quello di esaminare le dichiarazioni ambientali dei marchi ed elencare i prodotti e marchi sostenibili disponibili per i consumatori. Queste piattaforme vogliono aiutare i clienti attenti all’ambiente a prendere decisioni di acquisto più consapevoli, verificando le esigenze di sostenibilità e raggruppando i marchi sostenibili in un unico marketplace.
Nonostante le buone intenzioni, questo modello comporta rischi, come conflitti di interesse e mancanza di fiducia da parte dei consumatori.
Mano a mano che brands e distributori si organizzano per capitalizzare sul crescente interesse dei consumatori verso l’abbigliamento sostenibile ed etico, l’industria rischia di trasformare tale interesse in confusione e stanchezza.
I brands tendono a presentare infatti “l’elenco della spesa” sulla sostenibilità. Le etichette del fashion da Stella McCartney a Eileen Fisher pubblicizzano i materiali organici utilizzati nelle loro collezioni, mentre Patagonia dichiara di aver costruito una catena di approvvigionamento trasparente. È difficile dare un senso compiuto a tutte queste informazioni disparate e i brand fanno fatica a trasmettere un forte purpose. E, dato che i termini legati alla sostenibilità provengono dalla comunicazione e non da una certificazione, la fiducia è sempre più un problema critico.

Senza un ente di standardizzazione che definisce legalmente le parole “sostenibile” ed “ecologico”, forte tendenze 2020 del mercato nella moda, i marchi possono fare queste affermazioni praticamente senza restrizioni e controlli.
Alcune iniziative lanciate negli ultimi anni cercano di risolvere questo problema dando una valutazione della sostenibilità e dei processi etici dei marchi, creando successivamente una piattaforma dove acquistare i brand selezionati. Il multi-brand retailer Wearwell propone una selezione di brand sostenibili; Good On You non vende direttamente e ha scelto di essere una fonte di informazioni trasparenti per selezionare i brand sostenibili.
La teoria alla base di questi progetti aziendali è quella di proporre ai consumatori una scelta di brand etici, eliminando la fatica di dover cercare da soli le certificazioni ambientali o del lavoro dei marchi, con l’obiettivo di aumentare la fiducia e facilitare gli acquisti di marchi autenticamente sostenibili. Ma piattaforme come Wearwell e Good On You corrono anche il rischio di esplorare potenziali conflitti di interesse, sfiducia dei consumatori e domande sulla credibilità.
I clienti vogliono conoscere le definizioni specifiche di termini vaghi come “impatto ambientale” e vogliono capire la differenza che fanno con i loro acquisti e le loro scelte.

Stabilire un nuovo modello di business per la sostenibilità

Oggi i brand possono rivendicare la loro sostenibilità o pratiche etiche senza che istituti del settore possano fermarli, controllarli o certificarli. Un rivenditore può affermare di essere un marketplace etico, senza necessariamente avere un processo di verifica approfondito per accertarsi che i marchi che distribuisce siano veramente ciò che dichiarano di essere: le buone intenzioni non sempre equivalgono a buoni risultati.
Inoltre, i modelli di business che dipendono da vendite in costante aumento possono essere sostanzialmente insostenibili.
C’è la forte convinzione che la vera risposta da dare per ottenere un’industria della moda più sostenibile sia quella di rallentare la produzione e il consumo, che i consumatori acquistino meno nel complesso, ovvero definire un nuovo business model sia di produzione che di acquisto.

Chloè Payer
Docente di Accademia del Lusso Milano