La passione per la moda mi accompagna da sempre, tanto che a volte la definisco, scherzando, una malattia con la quale sono nata. Amo la moda perché è una modalità di espressione e comunicazione personale e sociale, perché è un linguaggio che mi incuriosisce profondamente.
Non credo che la moda sia superficiale ma credo possa regalarci leggerezza; sono fermamente convinta del fatto che la moda non sia mera apparenza e che possa essere invece anche sostanza ed essenza. E penso, infine, che l’estetica non possa e non debba essere slegata dall’etica.
È per tutti questi motivi che il 24 aprile 2013 è stato un giorno estremamente doloroso e indimenticabile. È la data in cui si è verificato il crollo del Rana Plaza, edificio che sorgeva a Dacca, capitale del Bangladesh, e che ospitava fabbriche tessili, una banca, appartamenti e negozi.
Le operazioni di soccorso si sono concluse con un bilancio tragico: 1.134 vittime e circa 2.515 feriti che raccontano, ahimè, come il crollo del Rana Plaza sia il più letale cedimento strutturale accidentale nella storia umana moderna nonché il più grave incidente mortale avvenuto in ambito tessile.
Le fabbriche tessili impiegavano circa 5.000 persone e realizzavano capi di abbigliamento per molti marchi internazionali. Il crollo ha dunque costretto il mondo a fare i conti con il vero costo della delocalizzazione che grava su sicurezza e benessere dei lavoratori.
Sia ben chiaro, la pratica della produzione dislocata non era certo una novità né era una sorpresa il fatto che la moda fosse – e sia – uno dei settori a farne ampio uso. Tuttavia il Rana Plaza è stato per molti un punto di non ritorno: per me, per esempio, è stato devastante fare i conti con il fatto che la passione che nutro con sincerità, e che nella mia visione dovrebbe condurre a bellezza e gioia, causi invece così tanta sofferenza.
Che cos’è Ritmi Sostenibili
Da allora, mi sono impegnata a portare avanti dei cambiamenti, come consumatrice e anche come professionista. Visto che da anni ho trasformato l’amore per la moda in un lavoro occupandomi in particolare di comunicazione, ho deciso di fare la mia parte affinché si parli di un argomento fondamentale quale la sostenibilità, dal punto di vista sociale e ambientale.
Proprio alla luce della necessità di essere sempre più attiva su tale fronte, ho recentemente accettato l’invito a partecipare a un talk intitolato “Ritmi Sostenibili”.

Il talk è stato organizzato da Demood, collettivo che si pone un preciso obiettivo: celebrare creatività e bellezza in ogni forma attraverso progetti caratterizzati da sperimentazione e dinamismo, proprio come il dibattito “Ritmi Sostenibili”.
Il talk si è tenuto il 10 giugno presso il Campus Simonelli a Belforte del Chienti nelle Marche, ovvero la regione di origine del collettivo. Pensato per riunire rappresentanti di vari settori, “Ritmi Sostenibili” ha creato incontro e confronto attorno al tema della sostenibilità, come suggerisce il titolo, accostandola a innovazione, cultura e intrattenimento.
Con il patrocinio della rappresentanza in Italia della Commissione Europea, il dibattito è stato introdotto da Maurizio Giuli in rappresentanza di Simonelli Group (azienda leader a livello internazionale nel settore delle macchine da caffè espresso d’eccellenza); è stato moderato da Niccolò Mazzocchetti, membro di Demood e professionista che si occupa di affari europei.
Il confronto ha visto l’alternanza di quattro ospiti:
Emanuela Pilotti (Celli Direct Acqua Alma Business Coordinator)
Tudor Laurini in arte Klaus (Content Creator, Dj/Producer, Founder Wanderlust Vision)
Riccardo Prosperi (Dj/Producer, Art Director, Founder Demood & Mood Festival)
e infine la sottoscritta, Emanuela Pirré.
Le nostre responsabilità
Ogni relatore ha raccontato una diversa sfaccettatura dell’approccio alla sostenibilità grazie alle esperienze maturate nel proprio settore.
In qualità di fashion editor e docente di editoria, i miei interventi sono partiti proprio dal fatto che, indiscutibilmente e innegabilmente, la moda deve oggi affrontare le proprie responsabilità.

Oltre a tragedie come quella del Rana Plaza, a parlare chiaro dal punto di vista ambientale sono, per esempio, i dati di UE e Commissione Europea di settembre 2022.
Il consumo di prodotti tessili nel nostro continente ha il quarto maggiore impatto sull’ambiente e sui cambiamenti climatici dopo alimentazione, alloggio e mobilità. Secondo quegli stessi dati, il tessile-abbigliamento è inoltre il terzo settore per maggiore utilizzo di acqua e suolo e il quinto per uso di materie prime primarie ed emissioni di gas a effetto serra.
È dunque evidente quanto serva agevolare la transizione verde del settore tessile e moda, partendo da un cambio di mentalità fino ad arrivare a nuove abitudini di produzione e consumo.
Chi sono i protagonisti della transizione?
Naturalmente sono in primis le istituzioni e le aziende, ma siamo anche tutti noi.
Ognuno di noi può fare la propria parte attraverso azioni concrete e quotidiane in quanto abbiamo tra le mani un mezzo potentissimo: scegliere come spendere i nostri soldi.
Possiamo adottare comportamenti più consapevoli attraverso le scelte di ogni giorno, facendo acquisti più sostenibili, riducendo la quantità e privilegiando la qualità. Possiamo allungare il ciclo di vita di capi e oggetti riparando, scegliendo second hand e vintage e anche rimettendo in circolo ciò che non usiamo più. Possiamo informarci sempre meglio, per esempio cercando e leggendo i report di sostenibilità pubblicati dalle varie aziende.
Possiamo seguire e supportare il prezioso lavoro di movimenti come Fashion Revolution, magari anche partecipando alle loro iniziative come #WhoMadeMyClothes attraverso la quale chiedere ai marchi di rispondere alla domanda «Chi ha fatto i miei vestiti?».
Junk – Armadi Pieni
Concludo queste mie riflessioni con lo stesso suggerimento che ho condiviso al termine del talk “Ritmi Sostenibili”, ovvero l’invito a vedere “Junk – Armadi Pieni”.
È una docu-serie in sei puntate a proposito dei costi sociali e ambientali dell’eccessivo consumo di abbigliamento; è disponibile sul canale YouTube di Sky Italia oppure on demand su Sky e Now e ha come host e co-autore Matteo Ward, imprenditore, divulgatore e attivista.
Ogni puntata è girata in un Paese diverso: in Cile e in Ghana si affronta il tema degli scarti di indumenti, in Indonesia si scopre come la produzione di fibre artificiali stia annientando la biodiversità, in Bangladesh ci si interroga su cosa sia cambiato – e cosa no – a distanza di dieci anni dal Rana Plaza. Il viaggio prosegue in India per scoprire come una richiesta sempre maggiore abbia stravolto millenni di cultura della coltivazione del cotone. L’ultima tappa è l’Italia per raccontare i problemi che esistono anche a casa nostra.
“Junk – Armadi Pieni” non ha lo scopo di spaventare bensì di sensibilizzare noi tutti guidandoci per vivere la moda in modo più sostenibile. È un progetto che desidera generare consapevolezza. Ed è anche un racconto per restituire una certezza: cambiare le cose è ancora possibile se ognuno di noi accetta di fare la propria parte.
Ed è proprio per questo motivo che anche eventi come “Ritmi Sostenibili” sono utili e importanti.
L’emozione più intensa che ho provato quel giorno è legata alla grande partecipazione che il talk è riuscito a generare: la sala era piena di persone che si sono rivelate realmente interessate e reattive.
Ho potuto dire a me stessa che, finalmente, la sostenibilità è un argomento condiviso, verso il quale c’è attenzione e desiderio di agire affinché non ci siano più Rana Plaza. E affinché la moda possa essere estetica, apparenza e gioia, certo, come anche etica, sostanza ed essenza, esattamente come in quella visione che ho sempre amato.