Supreme, “lo Chanel dello Streetwear”, ha perso il suo podio nell’Olimpo dei logo-items più desiderabili e viene accusato di “razzismo sistemico” dal suo (ex) Direttore Creativo. Cosa è successo al brand fondato da James Jebbia?
Parliamoci chiaro, che uno dei Brand underground più In degli ultimi trent’anni sia stato accusato di razzismo fa scalpore ma trova il tempo che trova. Ci troviamo di fronte a congetture. Da una parte Tremaine Emory, ex (primo) direttore creativo che accusa il Brand di “razzismo sistemico”. Dall’altra, la Holding che lo possiede dal 2020 e che ha negato tutto. Ma la verità è che noi outsider non conosciamo davvero le dinamiche aziendali dietro l’accordo di possibile collaborazione con Arthur Jada. E finché non sarà lo stesso a parlare, la verità non verrà mai fuori – perché, anche se domani questa collab dovesse uscire, noi non sapremo mai ad oggi quali sono i fatti.
Il caso Supreme
Creata nell’aprile del 1994 come marca d’abbigliamento per skater, Supreme nasce per mano di James Jebbia – che ha continuato a seguire a 360° il Brand fino al 2020, quando Supreme è stato venduto per 2,1 miliardi di dollari alla VF Corporation.
La storia del marchio è strettamente legata al suo primo store, aperto a New York in Lafayette Street, Downtown. Un luogo pensato per gli skater, con i vestiti esposti sul perimetro del negozio e che vedeva al suo centro uno spazio vuoto: come se fosse una pista. Questo faceva del locale non solo un posto dove acquistare capi d’abbigliamento, ma un luogo sicuro in cui si poteva entrare con lo skate ed essere semplicemente se stessi. Era pura libertà sopra le righe. E non c’è da sorprendersi quindi se lo stile inconfondibile dello store newyorkese iniziò a far parlare di sé, in un momento storico in cui scoppiavano la cultura hiphop e l’hype intorno ad altri brand di streetwear quali Nike e Adidas.
Quando è finita l’età dell’oro del Brand?
Ma allora, se la Supreme-mania negli ultimi anni ha portato addirittura alla nascita di riproduzioni fake-legali come quelle di SupremeBarletta, il brand quando ha perso la sua Supremazia? La risposta è semplice: con la vendita alla VF Corporation.
Dal punto di vista estetico, quando parliamo di Supreme, parliamo di linee limitatissime che non trovano il proprio Heritage nell’originalità o nella qualità. E forse neanche negli ideali di libertà anticonformista che vogliono rappresentare. Lo trovano nella propria esclusività.

Parliamo oggettivamente di magliette che non sono niente di che, ma il solo fatto che fino a qualche anno fa – parlo di quando gli unici store del brand erano in America e Asia e per una maglietta a prezzo di mercato dovevi riuscire ad accaparrartela sul sito – fossero così limitate ti faceva sentire così bene da spendere anche migliaia di euro per acquistarne una da un reseller.
Intorno al 2016 ogni giovedì, alle ore 12:00 locali in punto, venivano caricati i prodotti sulla piattaforma del brand. E non parlo di lanci modi capsule, con un migliaio di pezzi disponibili. Parlo di poche centinaia di pezzi comprensive di ogni categoria. Pochi minuti e tutto era sold out.
E ripeto, parliamo il più delle volte di magliette prive di qualsiasi parametro di interesse se non del logo. Logo da 80$. Più spedizione. Più dogana. Con incentivo di adesivo, sempre con logo. E lo scrive una che la corsa al miracolo l’ha fatta più volte. Una che, quando aprì lo store a Parigi, si fiondò a fare la sua prima fila non virtuale fuori al negozietto di Le Marais per uscirne con una felpa da uomo XXL (io, gnomo donna xxs) e un’oscena t-shirt color verde acqua con grafica stampata. E io ho sempre odiato le stampe di plastica, quelle che seminano pezzi quando le lavi – perché non stiamo parlando di chissà quale stampa serigrafica d’alta gamma.

Eppure tutt’oggi vado orgogliosissima di quell’acquisto. Avrei fatto lo stesso shopping per un qualsiasi altro brand? Assolutamente no. E ci tengo a precisare che la mia non è una felpa: è un copertone. Perfetto contro il freddo ma non per l’inverno, perché non esiste cappotto che lo contenga. Risultato? Esce dall’armadio un paio di volte in autunno.
Questo era il carisma di Supreme: l’élite. Ben oltre qualsiasi marchio ultralusso. Sembrava accessibile ma non lo era affatto. E non era il budget il vero limite, ma il fatto che per avere nel tuo armadio un capo di Supreme – originale, perché se parliamo di imitazioni, pullulavano alla fine degli anni ‘10 – dovevi essere stato graziato dalla vita. Adesso? Adesso trovi sempre qualcosa disponibile online. C’è lo store in Francia, quello di Milano. Non paghi neanche la dogana! Poco importa a chi il mercato lo porta avanti se dietro ad una maglietta di cotone ci metti un direttore creativo. Oggi per avere un capo di Supreme basta potertelo permettere. Prima eri il primo dei privilegiati.